Per via dei suoi autoritratti, sappiamo bene qual'era la faccia di Diego Velzáquez. Tra i numerosi che ha eseguito il migliore è forse quello all'interno di Las Meninas (1656, Madrid, Museo del Prado), dove sta in piedi, sulla sinistra, e ci guarda negli occhi quieto e concentrato, in attesa di riprendere il suo lavoro. Ma ce ne sono altri, e sempre lo vediamo con i capelli vaporosi che si allungano ai due lati della faccia, i baffetti color pece sollevati alle estremità, l'aria pensosa. È questa l'immagine che ci ha voluto lasciare di sé, quella di un vero e proprio asceta dell'arte, distaccato dal mondo: la rigida educazione religiosa ricevuta dai genitori durante l'infanzia diventa in lui matrice di quella totale dedizione al lavoro che sempre l'accompagnerà.
Naturalmente di tanti altri pittori e scultori conosciamo il volto. L'autoritratto è una pratica piena di fascino, che permette all'artista di rappresentarsi e nello stesso tempo di interpretarsi, suggerendo – grazie alla postura, all'abbigliamento, agli oggetti posti attorno – qualcosa almeno sulla sua psicologia, se non addirittura sulla sua anima. Si potrebbe proporre una tripartizione, per quanto riguarda questa pratica. Ce ne sono di ambientati, dove l'artista si colloca nel contesto di una scena più ampia (è questo il caso di Las Meninas), in relazione e in dialogo con altre figure; ce ne sono di professionali, dove l'artista si presenta come tale, nel pieno delle funzioni, per cui ha per le mani gli strumenti di lavoro (tavolozza e pennello, scalpello e martello, o altro ancora) e i vestiti che indossa sono per lo più sporchi; infine ce ne sono di semplici, dove l'artista si mostra soltanto come uomo e tutta l'attenzione è posta sui tratti del suo volto, sulla disposizione del suo corpo. Compresi in questo terzo tipo, solo per rimanere negli ultimi cento anni, vengono alla mente l'Autoritratto a mezzo busto (1938-39, Locarno, Collezione Rezzonico) di Giorgio de Chirico, i tanti eseguiti senza pietà per sé da Antonio Ligabue, i tanti eseguiti con troppo compiacimento di sé da Luigi Ontani, passando per tutta la minuta e straordinaria produzione fotografica di Francesca Woodman e arrivando, perché no, all'ironia di Keith Haring che nel suo Autoritratto (1989, New York, The Estate of Keith Haring) ci mette di fronte un grande omino di lamiera dei suoi, senza lineamenti nel volto. E non dimentichiamo che l'essere in scena, nella performance, è comunque una forma di autoritratto, da Gina Pane a Marina Abramović.
Queste sembrano le tappe di avvicinamento necessarie per arrivare, oggi, qui, ai dipinti e alle carte di Davide Corona. Perché, a ben vedere, si tratta per lo più di autoritratti. Per questo motivo la domanda giusta da farsi, mentre si visita la mostra o si sfoglia il catalogo, va formulata così: chi è questo Davide Corona che si presenta ai nostri occhi? L'abbiamo di fronte a noi quasi in ogni opera. Quasi in ogni opera è lì, riconoscibile per via della corporatura, la forma delle mani e la curva della fronte, e ancora i vestiti, il colore della pelle e il modo in cui abita lo spazio. Tuttavia, mai riconoscibile per i tratti del volto. Praticamente tutti gli autoritratti che conosciamo all'interno della storia dell'arte – a meno che non siano eseguiti con intenti ironici o spiazzanti – tengono fermo il dato della riconoscibilità, e la riconoscibilità di un individuo è data soprattutto dallo stare insieme di occhi, naso e bocca inquadrati nell'ovale del volto. Non così per Davide Corona, che non “ci mette la faccia”, come si suol dire. E quindi: che succede?
Succede che l'identità di questo artista, di questo uomo, non sta nella sua faccia. Che la sua faccia non importa. Importa invece mettere in evidenza un profilo intellettuale che è fatto anche, e soprattutto, di maestri. Siano essi narratori (Salinger, Kerouac), siano essi poeti (Keats, Whitman), siano essi autori di fumetto (Crepax, Stan Lee), siano essi pittori (Puvis de Chavannes, Hopper). Maestri tutti attinti attraverso le pagine dei libri, che non saranno letti e poi accantonati, come succede per i lettori occasionali, ma al contrario continuamente frequentati, ripresi in mano, sfogliati, consultati. Così come si fa con i maestri. Così come si fa con le persone amate, che assiduamente ricerchiamo.
In questa sua mostra dunque Davide Corona propone una vasta mole di autoritratti che possiamo intendere come un unico, grande autoritratto. All'apparenza ci mostra il suo corpo abbinato di volta in volta a uno o più libri, in realtà mette in scena il suo profilo intellettuale e umano, e ci testimonia frequentazioni giornaliere con alcuni tesori della cultura internazionale tra Otto e Novecento. Ma non si ferma qui. Qualche altra cosa, nel suo mondo raccolto tutto in una stanza (che però è vastissima, perché ogni libro spalanca una vertigine di esperienza, e quella vertigine è piena di vicende, suoni, odori, tempo, spazio), entra. Entra un'amica che legge Prévert, entra una seconda amica che legge la Wolf in lingua originale, entra lo scorcio di uno studio altro, dove un artista che Davide Corona stima sta leggendo Nietzsche, entra – perché no – la luce, il che non è scontato. Perché si tratta della testimonianza di un fuori che pure esiste, il fuori della natura, che chissà, forse un giorno potrà rientrare negli interessi di questo pittore.
Ci sono anche, infine, delle nature morte. Tutte piuttosto belle (si badi ad esempio allo studio attento degli accordi di tono in Whitman, 2011, o all'ironia di Bacon, 2011), queste nature morte sono nature morte culturali, poiché mettono in scena libri. Quindi, sono nature morte vive, che ci parlano così come sanno fare i libri, vale a dire una delle cose più vive che esistono al mondo. L'autore di questo scritto auspica che più di tutto resti vivo quel che di vivo aleggia nel dipinto intitolato Simbolismo (2011).